Sapete l’azzuro del cielo leggermente velato di un grigio latteo? Nonna Teresa Gallello ne aveva due ritagli minuscoli negli occhi, spenti per la cornata improvvisa di un bue al quale, alla “Cianciana ‘, stava sciogliendo il fieno nella mangiatoia. Aveva ventisette anni e già cinque figli, tra i quali mio padre, quando le manco per sempre la luce del sole; e me, perciò, non mi vide mai se non attraverso il tocco dei polpastrelli, che aveva leggero, carezzevole. Cinquant’anni in quel buio dal quale, quando l’andavo a trovare durante le vacanze d’estate, faceva uscire, con la sua vocina tremula, i fantasmi dei suoi ricordi personali le monellerie di mio padre, il figlio che era scappato dalla terra e si era affermato in un lavoro civile, leggero e pieno di soddisfazioni e dei racconti uditi da bambina. Minuta, scarna, il volto cereo per quella vita trascorsa nell’ombra della casa e accentuato dal candore dei capelli e dal bianco della tovagliola in capo e della camicia, nonna Teresa aveva ogni estate un racconto da regalarmi altro non possedendo o non avendo da disporre perché d’ogni cosa era padrone il marito, il brontolone nonno Francesco, grinzoso e nero e devoto cantore in chiesa. Una volta mi narro della Mamma Lamia, una strega che immaginavo abitante alla Gambina, nella casa della bisnonna, che tutti chiamavano ‘a Postarata e aveva un orto nel quale fioriva il melograno e aveva pure, sul muro di casa, un ramo rampicante della “passiflora”, il fiore straordinario della Passione. C’era ‘na volta una donna che aveva una figlia e una nipote. Aveva tutte le attenzioni e le premure per la figlia, ed alla nipote riservava, invece, rimproveri e busse quando non eseguiva a puntino gli ordini che le dava. Un giorno chiamò la nipote e le dette incarico di di andare dalla Mamma Lamia per farsi prestare il lievito per il pane e il setaccio per cernere la farina.
La piccola protesto più che potè, perché aveva una gran paura di quella donna, sul conto della quale ne sentiva ogni giorno di peggio; poi dovette arrendersi alle minacce della cattiva zia e si mise per strada. Cammina, cammina, ad un certo momento chi ti incontra. S. Nicola, giustappunto quello del quadro in chiesa. Bello e vestito coi paramenti ricamati d’oro e d’argento e la barba candida, il santo si interesso a lei. Le chiese: «Dove stai andando, bella figliola.» «La zia m’ha mandato dalla Mamma Lamia, ed io ho paura che S. Nicola sorrise, le. carezzo il volto e poi le diede un vasetto di miele dicendole: «Quando vedrai il fuso della Lamia, che fila alla finestra, arrivare al basso, ungi il filo con questo e non t’accadrà nulla Alquanto tranquillizzata, la piccola arrivo alla casa della Mamma Lamia, vide il fuso, unse il filo e attese. Poco dopo udì la voce della strega venire dall’alto: «Oh, ch’è duci ‘sta fileja! ‘Nchiana ‘nchiana, bella ziteja»
«Non nchianu, ca vue mi mangiati». Si rifiutò con voce flebile la ragazzina.
«’Nchiana, ‘nchiana!»
La Mamma Lamia aveva una voce cosi suadente, che la piccola, seppure non del tutto convinta, si fece coraggio e sali in casa. «Mo’ vai e mi ruppi ‘i piatti.» Le ordinò la Lamia. Ella andò in cucina, trovò una montagna di piatti sporchi e invece di romperli, come le era stato ordinato, li lavo per bene.
«Mo allordami a casa!» Ella ramazzo ben bene i pavimenti, puli gli angoli, tolse la polvere dai mobili e tornò da Mamma Lamia.
«Guastami u liettu.», fu il nuovo incarico. Ed ella, invece, cambio le federe e i cuscini, mise le lenzuola nuove fresche di bucato, una bella coperta con frangia di seta.
La vecchia strega le diede il lievito e il setaccio e la congedò.